All’origine di Venezia

 

Là dove la laguna si fa più desolata e struggente, proprio di fonte a Burano, è Torcello avvolta da quel silenzio altro, caratteristico dei luoghi sacri.

Nulla rimane qui del caotico viavai di Venezia, quando avvicinandosi la vede sbucare dal niente.

E se oggi la presenza di due ristoranti ha in qualche modo mutato il paesaggio che a metà Ottocento commosse il poeta e storico dell’arte John Ruskin (memorabile la sua descrizione in Le pietre di Venezia dove paragonò le quattro costruzioni di Torcello a “una piccola flottiglia immobile nella calma di un mare lontano”) la storia però rimane.

A Torcello sono legate le origini di Venezia.

E’ una storia antica quella della distruzione della città paleoveneta di Altinum (la cui fioritura urbanistica in seguito alla conquista romana fu attestata nel I secolo dopo Cristo dal poeta Marziale nei suoi Epigrammi) e dell’esodo dei suoi abitanti col vescovo Paolo sull’isola di Torricelium (il nome derivava probabilmente da una torre di guardia) nel 638 per sfuggire alle invasioni longobarde.

L’insediamento si sviluppò notevolmente, grazie ai commerci derivati dalla lavorazione della lana e del vetro, quando Venezia era agli albori.

Gli esuli “nel nome del Signore Dio nostro Gesù Cristo” a partire dal 639, “anno ventinovesimo del nostro signore Heraclio sempre Augusto”, iniziarono a costruire una basilica dedicandola a “Santa Maria Madre di Dio”, per ordine dell’Esarca di Ravenna “Isaacio”, che li aveva guidati sull’isola, “in favore dei suoi meriti e del suo esercito”, come indicato dalla pietra di fondazione posta all’interno, incastonata nella parete dell’abside accanto all’altare.

Dal 1008 questa chiesa, riedificata e consacrata a Santa Maria Assunta, il cui culto era molto sentito in Oriente, dal vescovo Orso I Orseolo, sorge su quella che un tempo era la piazza principale di Torricellium, accanto a un campanile, al martyrion della ravennate Santa Fosca e dietro le fondamenta di un grande battistero circolare per immersione, di tipo bizantino del VII secolo, dedicato all’apostolo Giovanni, come se ne possono ancora vedere, più piccoli, anche nelle isole del Dodecaneso o nelle città costiere dell’Asia Minore.

Queste costruzioni essenziali, prive di decorazioni appariscenti, armoniose e organicamente relazionate conservano inalterato un fascino unico.

All’interno della basilica di Santa Maria Assunta si rimane stupiti dall’atmosfera solenne e raccolta, con la luce proveniente dalle finestre a sud che viene assorbita e riflessa dai mosaici di una bellezza sfolgorante.

Il Giudizio universale copre l’intera controfacciata.

Di questa scena impressionante, tra le più belle in Italia, conosciuta sicuramente anche da Giotto prima di affrescare la cappella degli Scrovegni a Padova, tutto stupisce.

Personalmente trovo impressionante quella con la resurrezione finale dei corpi dalla terra e dal mare, raffigurata con la stessa soluzione iconografica presente nel monastero di Chora a Patmos, con gli angeli, qui situati ai lati, che suonano le trombe resuscitando uomini e donne mangiati dalle belve feroci della terra e dai pesci del mare, che escono incolumi dalle fauci di chi li ha divorati.

L’altro con la Madonna con il Figlio in braccio benedicente è situato nel catino absidale centrale, sotto l’Annunciazione e sopra i dodici Apostoli disposti in fila su un bel prato fiorito di rosolacci, una pianta caratteristica della laguna.

Alla sua destra nel diaconicon si trova Cristo benedicente sotto l’Agnello mistico del clipeo sorretto da quattro angeli, mentre nella fascia inferiore sono raffigurati i quattro dottori della Chiesa: Agostino, Ambrogio, Martino e Gregorio Magno. 

Tutti sono stati realizzati tra il XII e il XIII secolo da maestranze bizantine che lavoravano accanto a mosaicisti locali.

A quell’epoca infatti tra le comunità cristiane della laguna veneta e quelle di Costantinopoli e dell’impero bizantino esisteva un legame solido e profondissimo, al di là dell’antagonismo politico per l’egemonia commerciale nel Mediterraneo, che si esprimeva in una cultura sostanzialmente unitaria.

Colpisce innanzitutto l’essenzialità dei temi scelti, dal lato dell’altare l’annuncio e l’incarnazione, verso l’uscita il giudizio finale, come a proporre l’esperienza reale di un percorso visivo “incarnato” a chi partecipava alla messa.

L’impressione dominante è che siano organicamente legati allo spazio interno a tre navate, divise da nove colonne greco corinzie per lato, a formare un unicum basato sulla ripetizione del numero tre in rapporto simbolico al mistero della Trinità.

A questa unità percettiva concorre con un rapporto originale ogni singolo elemento.

Dalla splendida iconostasi quattrocentesca, con icone su tavola rappresentanti Maria e il Bambino tra i dodici Apostoli, sorretta da sei colonnine greco corinzie e, in basso, plutei di marmo bianco con pavoni e leoni presso l’albero della vita.

L’impressionante pavimento (incominciato nel 1008 e portato a termine presumibilmente nella seconda metà del XII secolo) a tessere policrome, che si sviluppa a motivi astratto geometrici a scacchiera di gusto arabo, nel presbiterio presenta un grande cerchio concentrico, con attorno altri quattro cerchi, il tutto inserito in un quadrato, simbolo di perfezione, motivo che trovava un parallelo nella disposizione dell’Omphalion (che significa letteralmente “ombelico del mondo”) di Hagia Sophia a Costantinopoli.

Stupiscono i marmi pavimentali nelle navate laterali che conservano al loro interno ammoniti fossili di milioni di anni.

Persino le travi in legno d’uso bizantino per evitare lo sbandamento dei muri danno ulteriore consistenza a questa percezione unitaria.

John Ruskin guardando dall’altare, ai piedi del quale si trova il sarcofago romano del martire Sant’Eliodoro portato qui nel 639 dai profughi di Altinum, molto acutamente paragonava l’interno di Santa Maria Assunta a una nave, l’immagine della Chiesa cara ai primi cristiani, scrivendo, “se lo straniero vuole imparare ancora quale fosse lo spirito che regnò nei primi passi di Venezia e con quali forze essa andò verso le conquiste, non cerchi di valutare la ricchezza dei suoi arsenali o il numero delle sue navi /…/ ma salga il ripiano che circonda l’altare di Torcello e guardi come fece anticamente il pilota del bel tempio-vascello, e si sforzi di sentire in se stesso la forza di cuore che li infiammava quando per la prima volta /…/ si distese nella potenza delle loro voci spiegate, l’antico inno: Il mare è suo ed Egli lo fece e le sue mani prepararono la terra ferma”.

 

 

Vladek Cwalinski     

      

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