Come sopra, così sotto.
Così recita la legge cosmica di analogia e corrispondenza dell’antico esoterista Ermete Trismegisto. Gli alchimisti, precursori della chimica moderna, cercarono di creare la pietra filosofale per trasformare qualsiasi metallo in oro utilizzando tecniche appartenenti a discipline diverse.
La parola “alchimia” deriva dall’arabo al-khimiya e significa fondere, saldare, e racchiude in sé una caratteristica che accomuna campi diversi, dall’arte alla scienza fino alla cucina. La cucina, come l’alchimia, fonde appunto in sé scienza e arte; è una questione di ricerca anche e soprattutto personale, un arricchimento di se stessi e non solo un appagamento del gusto.
La meticolosità con cui si crea un piatto, la combinazione dei sapori e delle tecniche per esprimerli al meglio e proiettare l’esperienza oltre la sfera dell’appagamento sensoriale, è una caratteristica peculiare dello chef Misha Sukyas.
Milanese di origini armene, formatosi al liceo artistico, Misha è un “visualizzatore”, un architetto del gusto con un percorso personale camaleontico come le sue creazioni. Dalla sua prima esperienza, giovanissimo, in un ristorante di famiglia a Cabo San Lucas, Misha resta affascinato dall’atmosfera corsara che respirava in cucina, dal patois linguistico del personale, dalla sensazione di appartenere a una ciurma variopinta.
La sua prima vera esperienza, a 18 anni, è a Londra dove si ritrova “cuoco per caso”; senza avere ancora le idee chiare sul sogno del bottone nero da chef, il suo primo ingaggio dura venti minuti e gli vale cinquanta sterline. Da quel momento, per circa un anno, Misha vivacchia girando anche quattro o cinque ristoranti al giorno dove riceve la paga della giornata pur senza ricevere incarichi fissi.
Poi, sempre in Inghilterra con Antonello Tagliabue, chef di Bice a Londra che lui considera un padre putativo oltre che un esempio di etica lavorativa, Misha impara l’organizzazione del lavoro, lo “stare” in cucina, insieme alla ricerca di qualità e servizio. Oltre che con Tagliabue, a Londra lavora con Valentino Bosch e Michelle Roux.
Giramondo per natura, le sue esperienze lo portano dall’Olanda (presso il ristorante “Van Vlaanderen” di Marc Philippart ad Amsterdam) fino a Sydney dove lavora al “Pier Restaurant” con Grant King, e poi con lo chef stellato australiano Peter Gilmore al “Quay”. Le sue tappe successive spaziano dalla Cina all’Indonesia; trascorre un anno “sabbatico” in India, dove dal contatto con la cucina locale – in particolare dai processi di panificazione – Misha apprende l’importanza della trasmissione dell’energia nelle proprie creazioni.
Nel 2007 torna in Olanda, sempre ad Amsterdam, dove perfeziona il proprio tirocinio e apre vari locali – “De Ysbreeker”, “Bar Itala” e “Lago” di cui è chef per un anno. L’incontro fondamentale per Misha è con Moshik Roth, chef israeliano di “avanguardia spietatissima” come lui stesso racconta, e paladino della cucina “tecno-emozionale”.
Se è vero che una creazione artistica riflette lo spirito e l’energia del suo creatore, lo è ancora di più nel caso di Misha Sukyas. La cucina da lui proposta è avanguardia morbida, molto rispettosa e improntata alla soddisfazione del cliente. Il suo non è un cibo pensato per soddisfare gli addetti ai lavori, ma per creare una “comfort zone” nel palato. È la ricerca ancestrale del “boccone perfetto”.
La sequenza di pietanze che compongono i menù di Misha è l’equivalente di un percorso alchemico, una tavolozza di ingredienti che richiamano – sia nella preparazione sia nell’impatto cromatico della presentazione – gli elementi presenti in natura. Ne è un esempio lampante il suo “Muddy Waters”, un piatto che si ispira al concetto di “palude”: di per sé un paesaggio di pura natura che unisce la potenza elementale di acqua e terra, ma che nell’immaginario comune è associato a sensazioni poco rassicuranti. E che invece, nella mente e nelle mani di Misha, diventa una prelibatezza: merluzzo cotto in un fornelletto composto da cenere di eucalipto, sale vulcanico, farina di manitoba e coriandolo.
Le creazioni di Misha, che verranno presentate al tavolo dai cuochi, sono un connubio di ricerca gastronomica e scientifica; basti pensare al suo utilizzo del Rotavac, un distillatore progettato per separare i solventi nei laboratori di chimica, utilizzato per cucinare in assenza d’aria e in condizioni di vuoto continuo. Oppure all’uso del trapano per la creazione di molle di zucchero e per pelare le mele, o ancora degli aerografi per la distribuzione delle salse e della caffettiera per servire la salsa che accompagna il suo strudel di maiale.
Misha crea in quel di Puzzle in via Carlo Goldoni, 31 , solo su prenotazione e solo alla sera, domenica escluso, e per sole 16 persone… e poi con il pesce fa meraviglie a La Cave in via Giovenale 7, in uno dei cortili della vecchia Milano, ove trovi anche altro che non ti aspetti.
Da andarci
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